Il mondo ha bisogno di un Osservatorio Globale sull’Editing?

osservatorio globale NatureTutti conoscono l’IPCC, il foro scientifico nato sotto gli auspici delle Nazioni Unite per fotografare lo stato delle conoscenze sui cambiamenti climatici, tracciare scenari sul loro impatto, confrontare le politiche di intervento possibili. Il mondo ha bisogno di un organismo simile anche per la rivoluzione biotech avviata da CRISPR, come sostengono Sheila Jasanoff e J. Benjamin Hurlbut su Nature? Un Osservatorio globale sull’editing  genomico è quel che ci vuole? Lo abbiamo chiesto a un pioniere della terapia genica e a un pioniere dei gene drive, ma anche a una bioeticista, uno scienziato politico, una psicologa sociale, uno storico della scienza.

Tutti concordano che è importante promuovere iniziative per arricchire e democratizzare il dibattito sull’accettabilità e le implicazioni etico-sociali degli sviluppi tecnologici dell’editing. Non viviamo più in un mondo in cui la ricerca scientifica può pensare di andare avanti indisturbata, senza curarsi della pubblica opinione. Ma appena si entra nel merito della questione, emerge il timore che dietro alla condivisibile volontà di riconciliare saperi diversi si nascondano delle insidie. C’è chi intravede il rischio che la scienza possa usare un osservatorio del genere per fagocitare altre discipline. E chi al contrario teme che la proposta nasca da una sfiducia immotivata nella scienza e possa alimentarla ulteriormente. “Una conversazione ampia è benvenuta, così come qualunque sforzo per adattare le strutture politiche ed economiche per far sì che gli avanzamenti tecnologici riducano le disuguaglianze”, premette Alta Charo, che è una delle voci più autorevoli della bioetica americana. Poi però arriva l’affondo. “Se l’obiettivo è rallentare o fermare la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico per paura di turbare le norme culturali, religiose o familiari esistenti, allora ci perdiamo tutti. Il cambiamento non è solo inevitabile, è l’essenza dell’umanità”, ci ha detto la studiosa dell’Università del Wisconsin.

Finora, secondo Jasanoff e Hurlbut, anziché interagire scienziati e bioeticisti hanno lavorato in parallelo. La scienza ha detto cosa ci si può realisticamente aspettare da CRISPR e gli altri hanno ragionato sui possibili contraccolpi etici e sociali. Ora invece si propone di ribaltare la prospettiva, discutendo di come i valori e le priorità della società possano indirizzare meglio la ricerca. Questo punto di partenza preoccupa Luigi Naldini che, per i suoi importanti contributi nel campo della terapia genica, è stato chiamato a stendere le linee guida sull’editing del genoma umano delle Accademie delle scienze degli Stati Uniti. Il genetista del San Raffaele ritiene pericoloso sottrarre la guida del dibattito a chi può distinguere fra rischi reali e fantascienza, soprattutto in questa fase storica in cui la comunicazione avviene sul web, spesso a suon di fake news. “La proposta di un osservatorio mondiale è un’utopia che ha un sapore dolce ma anche il retrogusto amaro dell’ideologia”. Il rischio, secondo Naldini, è quello di lasciare troppo spazio a posizioni estreme e anti-scientifiche, come nel caso dei vaccini.

Anche Robert Paarlberg, che si occupa di politiche internazionali alla Harvard Kennedy School, fatica a capire perché si dovrebbe ridimensionare il peso della scienza: “La discussione pubblica sull’editing deve continuare e ampliarsi, ma non mi preoccuperei del fatto che siano gli scienziati a dettare l’agenda”. Pensate alle piante geneticamente modificate. “Tutte le società scientifiche sostengono che non comportano nuovi rischi rispetto alle piante convenzionali, eppure le organizzazioni della società civile sono riuscite a far approvare regole restrittive che ostacolano la coltivazione degli Ogm”, ci ha detto lo studioso. Proprio lo spettro della controversia sugli Ogm sta spingendo la comunità dei ricercatori che lavorano sulle frontiere più controverse, come quella dei gene drive, a cercare un dialogo il più possibile aperto e inclusivo. Ne è un esempio John Godwin della North Carolina State University, secondo cui un osservatorio globale non dovrebbe limitarsi a far parlare tra loro accademici con specializzazioni diverse, ma dovrebbe coinvolgere anche i soggetti portatori di interesse e le comunità. “Sarebbe più difficile da organizzare, ma probabilmente più efficace e avrebbe un impatto maggiore sul lungo periodo. È importante che queste discussioni si facciano ora, quando la tecnologia è ancora nella fase iniziale di sviluppo”. Le innovazioni non possono essere paracadutate sulla collettività quando sono ormai belle e pronte, il confronto deve iniziare il prima possibile.

Non si parte da zero, sia chiaro. In alcuni paesi come gli Stati Uniti, la Germania e la Gran Bretagna sono già state avviate delle iniziative sull’editing, per informare e coinvolgere l’opinione pubblica. “Il dialogo è partito ma è frammentato. L’aspirazione cosmopolita dell’osservatorio è molto condivisibile, mi chiedo come possa essere concretamente realizzabile”, ragiona la psicologa sociale Agnes Allansdottir, che ha contribuito a un sondaggio internazionale su questi temi e farà parte del Forum sull’innovazione della Regione Lombardia.

Traghettare l’idea dell’osservatorio dalla carta alla realtà sarebbe una sfida enorme, sul piano dei finanziamenti, della cooperazione internazionale, della trasparenza. Questo è un punto che non sfugge a nessuno. La proposta è più che ambiziosa, è visionaria. Ma poi, siamo sicuri che “osservatorio” sia il nome giusto? Se lo chiede lo storico della biologia molecolare Nathaniel Comfort. “Le parole sono importanti. Come cambierebbe il modello di dialogo, se ad esempio lo chiamassimo “think tank”?”. Lo studioso della Johns Hopkins University ricorda l’attacco contro la bioetica sferrato da uno scienziato influente come Steven Pinker e ci dice: “Abbiamo molti esempi in cui la scienza ha cercato di assorbire le discipline umanistiche nel proprio quadro esplicativo. Un osservatorio non rinforzerebbe questo scientismo a cominciare dal nome?”.

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