
Noi umani ne abbiamo 23 coppie. L’animale che detiene il record (una farfalla di nome Polyommatus atlantica) può vantarne 229. Alcune piante ne posseggono ancora di più, ma il loro corredo è andato incontro a moltiplicazioni. Parliamo di cromosomi, naturalmente. Il loro numero è caratteristico di ogni specie e conserva un alone di mistero. Perché proprio quel numero? Che cosa succederebbe se lo cambiassimo? Negli animali gli effetti tendono a essere deleteri: i topi con cromosomi fusi, per esempio, mostrano problemi di comportamento, crescita e fertilità. Le piante, però, sembrano piuttosto flessibili, come dimostra un esperimento eseguito con l’aiuto delle forbici genetiche CRISPR e pubblicato su Science.
Il gruppo diretto dal tedesco Holger Puchta è riuscito a fondere interi cromosomi nella specie modello Arabidopsis, riducendo il suo corredo da dieci a otto. Le piante così ottenute si sono sviluppate normalmente, senza cambiamenti rilevabili a livello di tasso di crescita, forma delle foglie, lunghezza delle radici o caratteristiche dei semi. Quasi come se nulla fosse successo. L’unica traccia lasciata dall’intervento riguarda la divisione cellulare che dà origine alle cellule sessuali (meiosi), con una redistribuzione dei punti di scambio cromosomici (crossover) a compensare la nuova architettura.
Persino in un organismo semplice come il lievito i riarrangiamenti cromosomici hanno serie ripercussioni, in termini di stress cellulare e difetti di crescita. A cosa è dovuta la flessibilità genomica del mondo vegetale? La risposta probabilmente va cercata nel passato evolutivo delle piante, che ha visto succedersi cicli di duplicazione completa dei genomi e successive fasi di “potatura genetica”.
L’ultimo lavoro pubblicato su Science, comunque, è degno di nota perché apre la possibilità di manipolare il numero dei cromosomi in organismi diversi, per ricerche mosse dalla curiosità o volte a trovare applicazioni pratiche. Capire i fenomeni di riarrangiamento e sfruttare queste conoscenze, ad esempio, potrebbe rivelarsi utile per migliorare le caratteristiche agronomiche delle piante, in particolare quando in gioco ci sono tratti codificati in regioni a bassa frequenza di ricombinazione.
È bene ricordare che fenomeni simili a quelli indotti sperimentalmente da Puchta e colleghi accadono anche in natura, dove possono limitare il flusso genico tra popolazioni appartenenti a una stessa specie e, in ultima analisi, trasformarle in specie diverse. Come notano il pioniere dell’editing genomico Feng Zhang e Kelly Dawe nel commento che accompagna la pubblicazione del lavoro su Science, i cambiamenti di struttura e numero ostacolano l’appaiamento cromosomico necessario per produrre gameti funzionali. I muli, ad esempio, sono ibridi sani, ma la mancata corrispondenza numerica tra i cromosomi dei loro genitori (una cavalla e un asino) li rende sterili.
In effetti i ricercatori hanno appurato che anche gli incroci tra l’Arabidopsis strutturalmente alterata e quelle “normali” sono caratterizzati da una riduzione della fertilità. Compiendo qualche passaggio in più, dunque, è probabile che si possa ottenere una completa sterilità degli ibridi. Una proprietà che potrebbe trovare applicazioni utili per il biocontenimento, limitando il flusso genico tra le colture geneticamente modificate e le loro specie selvatiche affini.