CRISPR contro il dolore cronico

Gli esperimenti sul topo suggeriscono che CRISPR potrebbe reprimere temporaneamente un gene chiave per la percezione degli stimoli dolorosi senza creare assuefazione.

Il bersaglio da colpire è stato individuato anni fa grazie a un ragazzo pakistano, che usava la propria insensibilità al dolore per esibirsi in numeri pericolosi, con carboni ardenti e lame affilate, ed è morto tragicamente. Studiando il suo caso e altri cinque individui appartenenti allo stesso clan, anch’essi immuni al dolore, è stata notata una mutazione rara a carico del gene SCN9A e il lavoro è finito su Nature. Poi diversi gruppi di ricerca hanno seguito questa pista, nella speranza di offrire a tanti pazienti un sollievo farmacologico senza troppe controindicazioni. Ora finalmente un lavoro pubblicato su Science Translational Medicine suggerisce che la soluzione potrebbe arrivare da una terapia genica a base di CRISPR.

Il dolore cronico può durare mesi o anni, e può essere trattato con oppioidi che creano dipendenza, come la morfina. Si tratta di una condizione debilitante che, secondo alcune stime, arriva a interessare fino al 30% delle persone. Liberarsi del tutto e per sempre dal dolore, però, non sarebbe una buona idea, perché accorgersi di ciò che ci fa male è importante per la sopravvivenza. Riuscire a spegnerlo temporaneamente e in modo mirato, invece, sarebbe una liberazione per i pazienti oncologici sottoposti a chemioterapia oltre che per chi ha subito gravi ferite o soffre di patologie dolorose come polineuropatia diabetica, eritromelalgia, sciatica, osteoartrite. Per farlo è necessario fermare, in modo duraturo ma non irreversibile, i segnali elettrici che dall’area interessata arrivano fino al cervello attraverso il midollo spinale, ma come?

Il gene SCN9A serve a produrre una proteina detta Nav1.7. Si tratta di un canale del sodio, ovvero di una struttura che si apre e si chiude consentendo il passaggio di ioni nei neuroni e non sembra avere altre funzioni oltre alla trasmissione dei segnali relativi al dolore. Quando viene espresso a livelli troppo alti, causa dolori forti e persistenti. Chi ne possiede una variante inattivata, invece, continua a percepire normalmente il caldo e il freddo, così come le pressioni tattili, ma non il dolore. Finora bloccare direttamente i canali Nav1.7 per via farmacologica non si è rivelata una strategia vincente, perché le molecole somministrate hanno interferito anche con altri canali simili, causando effetti collaterali come torpore e scarsa coordinazione. L’alternativa, dunque, è agire sul gene che serve a produrre il canale bersaglio anziché direttamente su di esso. Non è consigliabile, però, alterare la sequenza del gene in modo permanente, recidendo i filamenti del DNA con le forbici molecolari di CRISPR e lasciando che la ricucitura causi l’inattivazione.

Dunque Ana Moreno, Prashant Mali e i loro colleghi dell’Università di San Diego hanno avuto l’idea di utilizzare una variante di CRISPR in cui le forbici sono disattivate (dCas9) ma è stata aggiunta un’unità che funziona da repressore. In questo modo la piattaforma biotech conserva la capacità di individuare con precisione il bersaglio e legarsi ad esso in modo reversibile, ma senza tagliare. In pratica è come azionare un pulsante sull’off, senza precludersi la possibilità di tornare sull’on. Gli autori dello studio hanno provato sul modello animale sia CRISPR che una tecnica di editing più vecchia, le dita di zinco, con ottimi risultati in entrambi i casi. È bastato inserire in navette virali (virus adeno-associati) il pacchetto per la repressione del gene e iniettare il tutto nei topi per via spinale. In precedenza in alcuni di questi esemplari era stato indotto uno stato doloroso, somministrando loro agenti infiammatori o farmaci chemioterapici.

Osservandone i tempi di reazione e il comportamento in presenza di stimoli potenzialmente dolorosi, è stato appurato che la terapia genica aveva alzato la loro soglia del dolore rendendoli più tolleranti e migliorandone il benessere, senza alterazioni evidenti delle capacità cognitive né motorie. L’effetto analgesico è stato osservato per periodi di 15-44 settimane, rispettivamente per il dolore indotto da chemioterapia e infiammazione, ma la fase di osservazione prosegue. I ricercatori si aspettano che il beneficio sia di lunga durata ma non permanente, perché l’accessibilità del DNA alla trascrizione è regolata da fattori detti epigenetici che possono cambiare naturalmente nel corso del tempo.    

Gli autori dello studio hanno fondato una società biotech (Navega Therapeutics) con l’obiettivo di portare questa linea di ricerca dal banco del laboratorio al letto dei malati. Se i risultati saranno replicati anche nelle scimmie, sperano di poter avviare le pratiche per l’inizio di un trial clinico nel giro di un paio d’anni. Se anche la sperimentazione sull’uomo avesse successo, il costo elevato del trattamento potrebbe diventare un fattore limitante. Ma è probabile che l’attenzione si concentrerà anche sui possibili abusi in campo militare. La possibilità di disporre di soldati immuni al dolore ha già iniziato a essere discussa pubblicamente, ad esempio nel 2017 è stata menzionata tra gli scenari preoccupanti resi possibili dall’editing genomico dal presidente russo Vladimir Putin.

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